Il patto di non concorrenza ha la finalità di estendere, oltre la cessazione del rapporto di lavoro, il vincolo di non concorrenza.
I requisiti di legittimità sono stabiliti in modo tassativo dall’art. 2125 c.c. che dispone che “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.”
Può essere stipulato in qualunque momento, contestuale o successivo alla stipulazione del contratto di lavoro, e persino dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
La forma scritta, non è surrogabile neppure da eventuali previsioni della contrattazione collettiva poiché l’accordo è espressione di autonomia individuale.
Problemi interpretativi sorgono con riguardo ai requisiti relativi l’attività, il luogo e il compenso, stante l’indeterminatezza contenutistica che li caratterizza. Prendendo le mosse dal corrispettivo, la cui funzione è di fornire una sorta di riparazione del pregiudizio subito dal lavoratore, il vero punto inderogabile è costituito dalla congruità rispetto al sacrificio imposto.
Più complessa appare la determinazione dei limiti di oggetto, fermo restando che in ogni caso la prescritta restrizione del patto di non concorrenza deve essere precisa e non generica, né può mai rivelarsi tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non salvaguardino un margine di attività sufficiente per il soddisfacimento delle esigenze di vita e di guadagno del lavoratore.