Il licenziamento deve essere impugnato, anche stragiudizialmente, entro il termine di 60 giorni dalla comunicazione del recesso e il lavoratore deve, pertanto, rendere nota al datore di lavoro, con qualsiasi atto scritto e senza necessità di specificare i motivi della contestazione, la volontà di impugnare il provvedimento espulsivo.
L’impugnazione si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del lavoratore licenziato giunge a conoscenza del datore di lavoro (la Cassazione ha precisato che l’ impugnazione deve ritenersi tempestiva se consegnata all’ufficio postale entro il termine di 60 giorni, ancorché consegnata successivamente).
L’impugnazione è inefficace se, nel successivo termine di 270 giorni, non viene seguita da una delle tre modalità previste dalla legge per far accertare la legittimità o meno del licenziamento e cioè il deposito del ricorso in Cancelleria ovvero la richiesta del tentativo di conciliazione o dell’arbitrato.
Qualora la conciliazione o l’ arbitrato non vadano a buon fine il ricorso giudiziale deve essere presentato entro il termine di decadenza di 60 giorni dal rifiuto o dal mancato raggiungimento dell’accordo.
I termini descritti si applicano a tutti i casi di invalidità del licenziamento e ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro o alla legittimità del termine apposto al contratto, cioè a tutti i casi in cui il rapporto sia formalmente etichettato come autonomo, di appalto o subappalto, parasubordinato, a progetto o a termine, oppure si tratti di lavoro nero.