In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la soppressione del posto di lavoro non può essere considerata causa di recesso qualora le mansioni del lavoratore licenziato permangano e vengano ripartite fra gli altri lavoratori presenti in azienda.
Questo principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 19616 del 26 settembre 2011.
Nel caso di specie, i giudici della Corte d’Appello rigettavano l’impugnazione di una sentenza con la quale era stata dichiarata l’invalidità, per mancanza di giustificato motivo oggettivo, di un licenziamento intimato a un lavoratore, con successiva condanna dell’azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno provocatogli.
I giudici d’appello avevano infatti rilevato che non era stata provata la causa del recesso, vale a dire la soppressione del posto di lavoro occupato dal lavoratore licenziato, che vi era stata una riorganizzazione consistente nella ripartizione delle mansioni del licenziato a diverse unità lavorative, che il datore di lavoro non aveva fornito la prova dell’impossibilità di reimpiego del dipendente licenziato in mansioni compatibili con le sue funzioni nell’ambito dell’azienda.
Contro questa decisione il datore di lavoro propone ricorso in cassazione.
In sintesi, il ricorrente sostiene che nella facoltà del datore di sopprimere il posto di lavoro del dipendente licenziato non vi è l’obbligo di sopprimerne anche le mansioni, inoltre l’onere di dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni alternative si considera assolto se quest’ultimo non le indica tra quelle presenti in azienda al momento del licenziamento.
Per i giudici della Corte di Cassazione tale motivo è infondato, ed è corretta l’interpretazione dei giudici di merito. La Corte ricorda che il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3 della L. n. 604/1966, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto di lavoro o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, e tale soppressione non può essere meramente strumentale a un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni economicamente sfavorevoli per l’azienda.
Inoltre, spetta al datore di lavoro dimostrare l’impossibilità di utilizzare il lavoratore medesimo in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale. Non può essere di conseguenza accolta la tesi del ricorrente, secondo cui è a carico del dipendente l’onere probatorio circa l’esistenza di mansioni alternative, presenti in azienda al momento del licenziamento.