Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
La responsabilità per mobbing regge essenzialmente sull’art. 2087 c.c. che obbliga l’imprenditore ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, affinché siano salvaguardate sul luogo di lavoro la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione.
La caratteristica essenziale per definire come esistente un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto e per un apprezzabile periodo temporale, così da far assumere significatività oggettiva a tali atti, tipici dell’imprenditore o meno, e permettendo di distinguerli dal conflitto puro e semplice.
Non dà luogo a un’ipotesi di mobbing e, come tale, non legittima alcuna pretesa risarcitoria il ricorrere sul luogo di lavoro di difficoltà relazionali, legate alla cattiva predisposizione del lavoratore rispetto all’ambiente di lavoro, se non sussiste alcun intento persecutorio da parte del datore di lavoro o dei colleghi.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono dunque rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute e della personalità del dipendente;
c) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.