La materia della riduzione della retribuzione è, in primo luogo, regolamentata, dall’art.2103 c.c., secondo il quale: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione (…) Ogni patto contrario è nullo».
Secondo la giurisprudenza prevalente, la riduzione della retribuzione è da considerarsi legittima a condizione che si osservino determinati limiti:
1) la riduzione della retribuzione deve, innanzitutto, costituire oggetto di un accordo tra le parti: è pertanto necessario il consenso del lavoratore;
2) la riduzione del trattamento economico non può accompagnarsi ad una modifica in peius delle mansioni, così realizzando un demansionamento;
3) la riduzione della retribuzione non può, comunque, essere tale da far scendere il trattamento retributivo complessivo al di sotto dei minimi tabellari, poiché in tale ipotesi si integrerebbe una violazione dell’art. 36 della Costituzione.
In sostanza, il principio dell’immutabilità delle mansioni e dell’irriducibilità della relativa retribuzione si riferisce all’aspetto qualitativo delle mansioni e non a quello quantitativo. Pertanto, le parti possono convenire una riduzione della retribuzione rispetto a quella pregressa a condizione che non vi sia modificazione in peius dell’inquadramento e del livello retributivo tabellare minimo.
Quanto alle modalità pratiche di attuazione della modifica in questione, la formalizzazione dell’accordo di riduzione della retribuzione potrà avvenire attraverso la redazione di una scrittura privata sottoscritta direttamente tra datore di lavoro e lavoratore interessato.