In Italia l’outplacement è definito dal decreto legislativo n.276/2003 come “attività di supporto alla ricollocazione professionale…attraverso la preparazione, la formazione, l’accompagnamento della persona e l’affiancamento della stessa nell’inserimento nella nuova attività”.
Nell’ultimo triennio sono circa 20 mila, in Italia, i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro a seguito di fallimenti e processi di ristrutturazione aziendale e ricollocati dalle principali società di outplacement su una massa di oltre 23 mila candidati gestiti. Questo è quanto risulta dai dati diffusi dall’associazione che riunisce le più importanti società di outplacement.
Se nei primi anni duemila ad essere penalizzati furono soprattutto i sistemisti, adesso a soffrire è soprattutto l’industria farmaceutica.
L’outplacement ha fatto ricorso in larga misura alle nuove forme contrattuali, ispirate al criterio della flessibilità. Circa il 60% dei ricollocati, infatti, è stato riassunto con contratti a termine e a progetto con tempi medi di attesa di circa sei mesi. Molto bassa la percentuale di ricollocazione delle donne anche perché le società di outplacement offrono il loro servizio prevalentemente alle grandi aziende, in grado di poter garantire ai propri ex dipendenti un’assistenza in uscita, mentre la sensazione è che le donne siano particolarmente impegnate nelle piccole e medie imprese o siano già state penalizzate in fase di entrata nel mondo del lavoro.