Secondo quanto deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza 13789 del 23 giugno 2011, è lecito l’utilizzo, da parte del datore di lavoro, di un investigatore privato per controllare i dipendenti, purché tale attività di controllo non sconfini nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, ma si limiti a verificare l’esistenza di prestazioni del lavoratore che costituiscano azioni penalmente rilevanti e lesive del patrimonio aziendale.
Nel caso di specie, un datore di lavoro ha licenziato un proprio lavoratore con mansioni di addetto alla cassa, dopo aver scoperto, grazie all’intervento di un’agenzia investigativa privata, alcune irregolarità commesse dal dipendente medesimo.
Per i giudici di merito, l’utilizzo degli investigatori è stato gestito correttamente e, in ogni caso, proprio sulla base delle dichiarazioni dei dipendenti dell’agenzia investigativa, risultava inequivocabile la responsabilità del lavoratore per la mancata registrazione di alcune vendite.
Il lavoratore licenziato ricorre dunque per cassazione, proponendo nel suo ricorso alcune motivazioni dirette soprattutto a evidenziare l’inammissibilità del ricorso all’investigatore privato dal parte del datore di lavoro e la sproporzione del provvedimento di licenziamento.
Per la Cassazione, i giudici d’appello hanno operato in linea con un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui le disposizioni dell’art. 2 della L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) nel limitare la sfera di intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono il ricorso ad agenzie investigative, purché non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. In più, resta giustificato il ricorso agli investigatori privati non solo per l’avvenuto compimento d’illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche per il solo sospetto o per la mera ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione.