L’apposizione di un termine a un contratto di lavoro è legittima solo nell’ipotesi in cui vi sia un nesso di causalità concreto e accertabile che colleghi le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (che consentono l’apposizione medesima e che devono essere specificate con precisione nel contratto di assunzione) e la singola assunzione e relativa posizione lavorativa.
L’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001, in particolare, prevede che l’apposizione del termine sia priva di effetto qualora non risulti, “direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”. Tale onere di specificazione, che grava sul datore di lavoro e non può ritenersi soddisfatto da un mero richiamo “testuale” delle ragioni legislativamente previste, esige che le ragioni siano esplicitate in concreto, con puntuale riferimento allo stipulando contratto e alla posizione lavorativa assegnata.
Nella regolamentazione contrattuale, in sostanza, le ragioni giustificatrici l’apposizione del termine debbono essere riempite di contenuto, ciò, anche al fine di consentire il successivo controllo giurisdizionale sull’effettiva sussistenza delle stesse. Si tratta di un vero e proprio requisito essenziale della clausola contenente il termine e ne consegue che, ogniqualvolta tali ragioni risultino del tutto omesse, insufficientemente specificate, o soltanto tautologicamente richiamate, l’apposizione del termine è priva di effetto per carenza di un elemento essenziale alla sua validità.
Riguardo l’interpretazione da dare alla disdetta intimata dal datore di lavoro al lavoratore per scadenza del termine, esistono posizioni contrastanti:
– La disdetta intimata dal datore di lavoro al lavoratore per scadenza del termine invalidamente apposto al contratto di lavoro non si configura come licenziamento, né è soggetta alla relativa disciplina, attesa la specialità della normativa in materia di lavoro a tempo determinato, che ne determina la conversione in contratto a tempo indeterminato; ne consegue che, in tal caso, l’azione proposta dal lavoratore a propria difesa non si configura come impugnazione di licenziamento, né può invocarne le tutele (reale e obbligatoria) ma come azione di nullità parziale, fatta salva l’ipotesi in cui il datore di lavoro, sul presupposto della conversione del rapporto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non intimi un vero e proprio licenziamento del lavoratore a tempo indeterminato. . (Trib. Salerno 16/2/2008)
-In caso di contratto a termine convertito in contratto a tempo indeterminato, la dichiarazione del datore di lavoro di cessazione del rapporto di lavoro per scadenza del termine non può essere altrimenti intesa che come volontà di risolvere il rapporto e, quindi, come licenziamento con conseguente applicazione di tutta la relativa disciplina. (Trib. Milano 30/10/2007)
La sottoscrizione “per ricevuta e accettazione” da parte del lavoratore della comunicazione di risoluzione del rapporto di lavoro a termine esprime il consenso per la cessazione definitiva dello stesso e comporta il rigetto della domanda di accertamento dell’illegittima apposizione del termine e di ripristino del rapporto.
Cessata di fatto la prestazione lavorativa con la scadenza del termine illegittimamente apposto, il lavoratore non ha l’onere di comunicare la volontà di continuare a essere parte del rapporto a tempo indeterminato, né tale volontà può essere esclusa solo per la durata dell’intervallo intercorso dalla scadenza del termine, nel qual caso il datore di lavoro deve provare che il lavoratore, pur nella consapevolezza dell’illegittimità della clausola di apposizione del termine, abbia deciso di mantenere il silenzio inducendo così nella controparte l’affidamento di buona fede di una sua adesione alla cessazione definitiva del rapporto.