I patti di stabilità limitano la possibilità delle parti di recedere dal contratto di lavoro, per un periodo prefissato, in mancanza di una giusta causa.
La previsione di tali clausole è naturalmente ammissibile quando esse sono pattuite a favore di entrambe le parti del rapporto, con evidente vantaggio anche per il lavoratore.
Più controverso appare il giudizio sulla legittimità del vincolo assunto unilateralmente dal lavoratore. Secondo la Cassazione, nessun limite è posto dalla legge all’autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto attribuito al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre “pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto che comporti, fuori dell’ipotesi di giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 cod. civ., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del periodo minimo di durata del rapporto”.
Come nel caso del contratto a termine, le dimissioni sono legittime soltanto per giusta causa cosicché, in mancanza di tale presupposto, si configura in capo al prestatore di lavoro un illecito contrattuale che lo obbliga a risarcire il datore di lavoro. Graverà sul datore di lavoro l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza e l’entità dei danni subiti. Proprio al fine di ovviare alle evidenti difficoltà probatorie, le parti possono predeterminare i danni attraverso la pattuizione di una penale risarcitoria a carico del contraente inadempiente. In questo caso, resta peraltro ferma la facoltà del giudice di diminuirla in via equitativa, qualora l’obbligazione principale sia stata parzialmente eseguita o se l’ammontare della penale risulti manifestamente eccessivo.